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Sede Vagante – I media e il Vaticano/2

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Qui la prima parte. (Fonte immagine: PontifEX (2013), documentario di Emiliano Sacchetti, prodotto da Federico Schiavi.)

Nei discorsi che hanno accompagnato il cammino verso la recente elezione del nuovo pontefice è stato inevitabile che si facessero paragoni con “l’altra volta”. Magari meglio circostanziato nei dibattiti televisivi, ma spesso per le strade chiamato semplicemente “l’altra volta”, il lungo calvario di Giovanni Paolo II e la successiva elezione di Benedetto XVI rappresentano l’eterno paradigma dell’evento epocale per eccellenza. I numeri possono dare un’idea delle differenze tra le due successioni: Wojtyla fu ricoverato una prima volta il 1 febbraio 2005 e morì il 2 aprile successivo; le esequie furono celebrate l’8 aprile, il conclave si svolse il 18 e il 19, l’intronizzazione di papa Ratzinger avvenne il 24 aprile. Un totale di 83 giorni, contro i soli 37 trascorsi dall’annuncio di dimissioni di Benedetto XVI alla messa di insediamento di Francesco. Va considerato inoltre che nel 2005 il cambiamento di pontefice avveniva dopo quasi 27 anni, dall’ottobre del 1978.

Giovanni Paolo II era semplicemente “il papa”: per anni durante il pontificato di Benedetto XVI abbiamo continuato tra colleghi a ricordare i giorni della malattia di Wojtyla con l’espressione “durante il papa”, come se “il papa” non fosse una persona ma un’entità collettiva dentro cui eravamo tutti contenuti, persone, televisioni, città. Durante l’esposizione della salma del pontefice polacco la fila dei pellegrini per entrare in Basilica raggiunse i 5 km di lunghezza, la Protezione Civile prese in mano le operazioni in pieno stile Guido Bertolaso, con sommozzatori, elicotteri, tensostrutture. Ricordo che il giorno delle esequie il traffico era chiuso in quasi tutta la città, regalandomi l’allucinazione di una via Prenestina vuota in un giorno settimanale, solo tre-quattro scooter temerari stretti a un semaforo, davanti una spianata libera come neanche ad agosto.

Da un punto di vista televisivo era una Sede Vacante pre-HD, le immagini erano nel modesto formato 4:3 e non lo slanciato 16:9 di oggi, la maggior parte delle TV ancora lavorava con le cassette, poco computer, niente ftp (trasferimento file via internet) e le chiavette per navigare non esistevano. Otto anni fa neanche l’iPhone esisteva, cosa che ha permesso a un fotografo di fare il confronto tra una folla a Piazza S. Pietro nel 2005 e una nel 2013: la prima una selva di nuche nella notte bagnata dalla luce dei lampioni vaticani, la seconda un mare di display a perdita d’occhio, luminosissimi.

Si può dire che l’evento del 2005 sia stato più grande della copertura televisiva ricevuta, la massa di persone riversatasi su Roma ben superiore a quella di quest’anno, la reazione popolare più sofferta: lì si è trattato di un lutto, qui di un cambio della guardia. Poi un conclave non accadeva da moltissimi anni, e molto del fascino delle manovre cardinalizie ha a che fare con la rarità con cui si manifestano.

Il comignolo, la fumata, l’assemblea nella Cappella Sistina, l’extra omnes: tutti rituali avvolti in un esoterismo dovuto alla loro eccezionalità. E noi tutti lì ad ammirare il loro manifestarsi, il maestro di cerimonie che chiude le porte della Sistina, gli esperti di Vaticano a elucubrare sul rinchiudersi dei cardinali in una perenne seduzione per l’ancestrale, con una spruzzata di Dan Brown. In fondo un banale consiglio dei ministri si svolge in modo simile: alle TV è in genere concesso di filmarne uno all’anno, per fare il cosiddetto “giro di tavolo” con i componenti del governo seduti assieme, prima che la riunione abbia ufficialmente inizio e i cine-foto operatori (come ancora teneramente vengono chiamati dagli uffici stampa parlamentari) vengano gentilmente fatti uscire dalla sala.

Lo stesso che accade al momento dell’extra omnes, pronunciato dal maestro di cerimonie ancora in mezzo ai cardinali assisi, per poi procedere solennemente verso l’ingresso e chiudere l’accesso alla Sistina. Con uno zoom all’indietro la diretta televisiva ci ha mostrato un fiume di preti, suore, fotografi e cameraman uscire, e poi ha stretto di nuovo sulla chiusura del portone, con un suono per descrivere il quale vale la pena rispolverare il termine clangore. Dopo detto clangore l’inquadratura ha cominciato a fluttuare verso l’alto, con una lenta progressione che ha sfiorato gli affreschi della sala antistante la Sistina, raggiungendo un finestrone sul quale ha lentamente sfocato e in dissolvenza è passata a mostrare il tetto della Sistina da fuori, con il comignolo in bella vista. Splendida prova di misticismo cablato.

Il fervore registico del Centro Televisivo Vaticano ha anche prodotto un momento al limite del sacrilego: subito prima che il nuovo pontefice si manifestasse alla folla, mentre le tende del balcone erano state richiuse dopo l’annuncio dell’Habemus Papam, la diretta ufficiale ha mostrato per una manciata di secondi papa Francesco che lasciava la Sistina appena vestito di bianco (qui, al minuto 11:18). Poi bruscamente le immagini sono tornate sul balcone, le tende si sono aperte e il pontefice è apparso. In sostanza il nuovo papa è stato mostrato in diretta televisiva ancor prima che si concedesse alla folla, un eccesso di zelo mediatico del quale deve forse essersi resa conto la stessa regia dell’evento, che su quella scena privata è rimasta così poco da far pensare a un pentimento.

Simile profluvio di narrazione d’altronde asseconda la richiesta di partecipare, osservare, commentare: una secolarizzazione delle pratiche politiche vaticane a uso di un apparato mediatico che vuole giocare a fare l’insider, approfittando dell’illusione di un momento in cui tutte le persone sembrano unite in uno stesso afflato: le fotografie delle suore che esultano come fan sfegatati, le fotografie dei cardinali che arrivano in bici o che armeggiano con il blackberry, le infinite rubriche sui segreti vaticani.

Il trionfo dei salotti televisivi, come quello di repubblica.it dallo sgraziato nome Teleconclave, dove per giorni vari esperti hanno speculato sulle scarpe rosse griffate Prada che papa Francesco non avrebbe più indossato, oppure sul buonasera bergogliano, letto come un segno di laicità provocatoria con echi addirittura della canzone “Buonasera signorina”, un allure da Clark Gable e Sofia Loren. Tutto un ragionare lievemente birichino a scoperchiare infiniti segreti di Pulcinella, la condanna a dover produrre analisi a getto continuo per riempire la diretta, cercando di combinare una postura da giornalismo di osservazione con un’innegabile seduzione per la gigantesca macchina celebrativa,e infine avvertendo che no, non possiamo aspettarci un papa grillino.

Sotto questo tappeto di immagini e parole, per le strade risulta più arduo comprendere ciò che si osserva. Ricordo ad esempio la domenica precedente all’inizio del conclave, quando tradizione vuole che i cardinali celebrino messa nella chiesa romana di cui sono titolari. Una diaspora di potenziali pontefici in giro per la città, tutti da aspettare all’arrivo alla parrocchia per strappargli un saluto o chissà cos’altro, chiese intasate di giornalisti, sotto una pioggia torrenziale. Dentro corrispondenti parlano alle telecamere camminando tra i banchi, intervistano fedeli prima e durante la messa, facendo lo slalom tra un offertorio e una confessione.

Finito di assistere alla terza messa della giornata esco su Via della Conciliazione, le luci del viale che si riflettono sui sampietrini lucidi, la basilica che splende imperturbabile, mentre sotto i tanti portici vaticani vedo barboni che sistemano i giacigli sopra decine di metri di cavi che alimentano le piattaforme per le televisioni. Scampoli di una carità cristiana che permette il bivacco a quelle creature ai margini, meglio tollerate di noi operatori dell’informazione, che passiamo il tempo a discutere con carabinieri e polizia su cavalletti che non si possono usare (“occupazione di suolo pubblico”, il mantra ripetuto), e sui continui salti di frontiera tra stato italiano e Città del Vaticano di quel pugno di strade.

Mi guardo intorno e penso che una delle cose che non permette di guardare nel giusto modo il pianeta Vaticano sia proprio la crudele bellezza della basilica e delle sue propaggini, quell’unione di armonia, pesantezza, eternità. Visione inamovibile, che lascia senza fiato e toglie senso alle speculazioni sui cambiamenti, la modernità, il pauperismo del nuovo millennio. Svettano come una realtà che non muterà mai, tonnellate di marmo perfetto che sopravviveranno a tutti noi.

Un paio di anni fa sono stato a Yamoussoukro, la capitale amministrativa della Costa d’Avorio, e mentre entravamo in città all’improvviso è comparsa in lontananza una forma gigantesca, talmente grande da non riuscire a intuirne le reali dimensioni. Era la cupola della basilica Nostra Signora della Pace, voluta alla fine degli anni ’80 dal padre della patria Félix Houphouët-Boigny a un costo spropositato, da molti ritenuto scandaloso viste le condizioni del paese. Gli ivoriani sono fieri di descriverla come la più grande chiesa cattolica del mondo, anche se non è chiaro se il primato le appartenga davvero. Eretta su una spianata tuttora deserta, la basilica si presenta come un’aberrante replica di San Pietro: lo stesso doppio colonnato che abbraccia la piazza, la stessa forma della cupola con forti reminiscenze dei motivi michelangioleschi, qui espressi con un’economia di forme che ricorda i rendering degli architetti. Un trionfo della volontà in mezzo al nulla, un’astronave di simulacri cattolici planata su una città in divenire.

Nei giorni di escalation vaticana, mentre ascoltavo molte persone interrogarsi su cosa rappresenti per noi il sorriso di papa Francesco, più volte il mio pensiero è tornato alla basilica di Nostra Signora. Sommerso da pullman di turisti e pellegrini, negozi di souvenir e scorci di colonnato, mi sono chiesto se non fosse stato meglio trovarci di fronte quell’arido cupolone macrocefalo ben venti metri più alto dell’originale, privo dell’ammaliante splendore creato da alcuni tra i più grandi artisti mai esistiti. Così avremmo avuto di fronte un maldestro doppelgänger,nudo nella sua prepotenza che esprime solo potere, e non la bellezza sovrana della casa di Pietro, che da secoli siamo costretti a ammirare.


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